A quanto pare il tempo quest'anno
ha ripreso a fare dispetti agli uoeini, dopo averci costretto ad annullare
quasi tutta l'attività invernale, ci ha costretti a rimandare pure la
prima traversata dell'anno. Ma noi abbiamo cambiato data e programma ottenendo
la meritata ricompensa. Sabato 30 Aprile è una bella giornata di sole,
appena velato da nuvole passeggere e all'indomani il meteo è ancora più
clemente: sole! Visto che partiamo in una giornata
lavorativa per molti, abbiamo modificato il programma raggiungendo Pruno
in pullman nel pomeriggio e il
Rifugio Del Freo a Mosceta (m.1180) in serata, accorciando così la
traversata. In definitiva la parte che più ci interessa è quella prevista
per l'indomani, che resta inalterata. Al rifugio ci attendono gli amici
di Livorno che hanno approfittato della bella giornata per un'escursione
fuori programma. Siamo in 14 ma sappiamo che alcuni amici ci raggiungeranno
il mattino seguente. Alle sette siamo pronti per la partenza, la valle
di Mosceta non è ancora raggiunta dal sole ma già la temperatura si annuncia
superiore alla media, sarà una giornata calda in tutti i sensi. Il gruppo
è cresciuto, si sono aggiunti coloro che hanno pernottato alla Fania e
il solito Pierino (attenzione! è proprio il suo nome) che invece è partito
a un'ora impossibile.
Imbocchiamo il sentiero (segnavia 129) in un coro
di commenti sarcastici che rimproverano bonariamente ma non a torto, agli
accompagnatori di far iniziare le escursioni sempre in salita. In effetti
il primo tratto è in decisa salita su un sentiero profondamente segnato
dal ruscellamento dell'acqua piovana. I pile erano già finiti negli zaini,
ora li raggiungono anche le magliette più pesanti, si comincia bene! In
un clima da scampagnata raggiungiamo la strada di cava che interrompe
il sentiero. Pieghiamo a destra verso Fociomboli proseguendo poi sulla
stessa strada che alterna ora tratti sterrati ad altri asfaltati. A Passo
Croce (m 1231) abbiamo appuntamento con altri amici, ora siamo al completo:
22 partecipanti. Attenzione, Passo Croce è l'ultimo posto dov'è possibile
trovare acqua, da qui in poi non se ne trova più fino a Pasquilio,
ossia quasi fino alla fine della traversata. Raccomandiamo a chi volesse
ripetere il percorso di rifornirsi di una scorta abbondante al rifugio
perché in piena estate questa fonte potrebbe essere secca, attenzione
dunque. Imbocchiamo ora il sentiero (segnavia 141) che si stacca
sulla destra orografica della strada asfaltata in prossimità di un colle,
tagliando a mezza costa per dirigersi verso il Passo dei Fordazzani (m.1060)
e il Colle del Cipollato (m.1151) sovrastante l'omonima galleria. Il primo
tratto è in discesa, ben visibile ma reso scivoloso dal paleo. Scendiamo
con cautela in una lunga fila fino ai primi arbusti dove ci concediamo
una pausa. Sono da poco passate le otto e fa già
caldo, si, sarà proprio una giornata all'insegna del gran caldo. Anche
i più restii ricorrono alla crema solare, è il primo vero sole dell'anno,
nessuno vuole rimediare una bella scottatura assai probabile visto il
pallore che baldanzosamente esibiamo. Proseguiamo in direzione del Colle
del Cipollato che superiamo agevolmente immettendoci infine sulla strada
della cava Henraux, in località Betigna (m.1035), nei pressi della sbarra
che impedisce il transito alle auto. In verità ostacola anche l'accesso
a piedi perché bisogna scavalcarla. I fotografi sono i primi nella speranza
che qualcuno si esibisca in scavalcamenti, diciamo, rovinosi; macché niente
da immortalare. Superata la sbarra si prosegue sulla strada di cava fino
ad un bivio dove si deve piegare a destra, sempre su strada di cava ora
sterrata (segnavia 31 + at) a ridosso del Canale del Fredddone
(Canale Fondone). Il chiacchiericcio continua ma ora, stranamente (?),
ognuno cerca sempre più spesso l'improbabile ombra di piante ancora senza
foglie.
La galleria che conduce verso le cave dell'Altissimo offre
un gradevole rinfresco, nessuno perde l'occasione per una rinfrescata
con l'acqua che gocciola dalle pareti. Il versante nord del Monte Altissimo
è profondamente segnato dall'attività estrattiva che lo sta snaturando.
Ancora pochi metri e gli alberi lasciano il posto al bianco accecante
del marmo, senza occhiali da sole è davvero difficile tenere gli occhi
aperti; ora si che cominciamo davvero a faticare. Le prime giornate calde
sono le più dure da sopportare e noi stiamo camminando su una strada bianca
e polverosa in mezzo a incombenti pareti di marmo che riflettono ogni
raggio di sole. Lo scenario è grandioso e affascinante, per un po' dimentichiamo
che tutta questa ricchezza per l'uomo è un'immensa ferita nel fianco della
montagna. Sudati, col fiatone e con le signore finalmente (!!!!!) silenziose
superiamo la cava sempre seguendo la strada, fino ad incontrare il vecchio
sentiero dei cavatori (segnavia 142). Qui, a pochi metri dallo
scempio prodotto dall'escavazione meccanizzata la natura ritrova il suo
splendore, subito possiamo scorgere coloratissime fioriture che sembrano
spuntare dalla roccia. Camminando tra i faggi guadagniamo rapidamente
quota raggiungendo la cresta in prossimità del Vaso Tondo (m.1287), un
ampio canalone che deve il nome alla forma che assomiglia proprio ad un
enorme vaso arrotondato. Da qui un sentiero particolarmente esposto e
pericoloso conduce alla Tacca Bianca, la cava da cui si dice che Michelangelo
estraesse il blocco di marmo dove scolpì la Pietà. E' poco più di una
leggenda perché all'epoca non avrebbe mai potuto portare a valle un simile
peso, tuttavia la cava, un vistoso buco nel fianco della montagna, costituisce
uno degli itinerari più ammirati dell' Altissimo.
Noi proseguiamo seguendo il filo di cresta verso la vetta
(segnavia 143) in uno scenario da cartolina: alla destra la valle
del Canale delle Gobbie e una vista che spazia fino alle cime ancora innevate
dell'Appennino. Alla sinistra la costa tirrenica offre uno spettacolo
indimenticabile, lo sguardo spazia da Livorno fino alle Cinque Terre.
Camminiamo in silenzio rapiti dal panorama, per chi percorre il sentiero
per la prima volta è una scoperta continua. Il tracciato abbandona la
cresta per tagliare il crinale salendo fino a pochi metri dalla vetta,
riportandosi poi in cresta negli ultimi metri. Sono da poco passate le
11 quando alla spicciolata raggiungiamo la vetta del Monte Altissimo (m.1589),
siamo stanchi ma la fatica passa in fretta; ci troviamo praticamente a
metà itinerario, possiamo vedere il Monte Corchia, Mosceta è sul retro,
e il Monte Folgorito, l'ultima vetta che supereremo prima di scendere
verso Ripa. Sembra di poter toccare il Folgorito con un dito ma guardando
bene il semicerchio che dovremo percorrere si intuisce che è ancora molto
lontano. Ci concediamo un attimo di relax per consumare un po' di frutta
e per le foto di routine senza perdere l'occasione per chiamare casa che
in tanti cercano di individuare giù a valle. Ci attende ora il tratto
più difficile e pericoloso, fino alle pendici del Monte Carchio il percorso
presenta difficoltà notevoli, è esposto e su roccia, richiede particolare
attenzione, prudenza e soprattutto esperienza. Non è un sentiero (segnavia
143) adatto a tutti chi non è veramente esperto deve evitarlo, un
incidente qui può essere irrimediabile. Il nostro gruppo è formato da
escursionisti sufficientemente esperti, i più incerti, che comunque hanno
anni di esperienza, saranno da ora in poi seguiti da vicino dagli accompagnatori.
Lentamente raggiungiamo una prima sella dove il sentiero
si fa meno impegnativo pur restando assai esposto. Poco sopra incontriamo
due amici che stanno cercando di salire in vetta, a nostro parere non
hanno esperienza sufficiente, cerchiamo di convincerli spiegandogli il
rischio inutile a cui si espongono, purtroppo ci ignorano sopravvalutando
le loro capacità; questo è un comportamento irresponsabile alla base di
gravi incidenti.Davanti a noi scorgiamo il Passo degli Uncini (m.1380)
che deve il nome alle creste che assomigliano ad enormi arpioni.Anche
questo è un tratto notevolmente impegnativo che ci desta non poche preoccupazioni.
E' in forte discesa su un tracciato (segnavia 33) ben evidente
ma pieno di sassi smossi che possono cadere e far scivolare. Siamo un
gruppo numeroso e questo aumenta il rischio, dovremo rimanere compatti
per evitare che qualche sasso rotolando possa far male a qualcuno. A metà
percorso purtroppo una banale distrazione, un sasso che si muove e una
signora cade scivolando per alcuni metri lungo il pendio sassoso. Diciamo
subito che non è successo nulla di troppo grave: una caviglia slogata
e alcune abrasioni; ma in montagna è più che sufficiente per restare bloccati.
Le prestiamo le cure del caso e la aiutiamo a tentare di proseguire. Non
è possibile, il dolore è forte e la caviglia non regge, non resta che
caricarcela in spalla e scendere lentamente verso il Passo della Greppia
(m.1200) per farla riposare sul prato e valutare il da farsi. Il dolore
però continua ad aumentare rendendole impossibile proseguire, ora ci troviamo
su un piccolo pianoro a ovest sgombro da ostacoli, la visibilità è ottima:
chiediamo l'intervento dell'elisoccorso.
Una serie di telefonate con la base di Cinquale e in poco
tempo il soccorso è effettuato. E' andato tutto bene, per fortuna, ma
una riflessione sull'accaduto è doveroso farla. Andando in montagna si
deve mettere nel conto la possibilità di un incidente, magari con conseguenze
limitate come una slogatura, ma che tuttavia essendo in montagna è sempre
un evento di una certa gravità. La nostra amica in conseguenza di una
slogatura è caduta lungo il pendio riportando solo alcune contusioni,
ma poteva anche battere la testa con conseguenze ben più gravi. Non possiamo
poi dimenticarci di chi l'ha soccorsa, scendere lungo un pendio portando
una persona sulle spalle è oltremodo pericoloso e non è certo privo di
pericoli chiamare a volare un elicottero a ridosso di pendii rocciosi.
Una distrazione, o peggio la sottovalutazione del rischio, o la sopravalutazione
delle proprie capacità, mette in grave pericolo l'incolumità di chi sarà
chiamato ad effettuare il soccorso. Da sempre ripetiamo che un'escursione
in montagna non è una passeggiata, servono preparazione, allenamento e
tanto buon senso. Mai si possono sottovalutare le difficoltà e sopravvalutare
le proprie capacità; avere alle spalle decine di escursioni non sempre
è sufficiente per essere un escursionista esperto. Un buon escursionista
è colui che sa riconoscere i propri limiti. Quando ripartiamo sono oramai
le 14, siamo tranquilli perché la dottoressa dell'elisoccorso ha escluso,
a suo parere, la presenza di fratture e la nostra amica era assai tranquilla
al momento di salire sull'elicottero. Comunque il gusto dell'escursione
è sfumato, ora pensiamo solo ad arrivare. Ci incamminiamo verso il Passo
della Focoraccia (m.1059), detto anche Passo del Pitone, in versiliese
pitone è un grosso sasso. Il sentiero inizia subito in forte discesa e
si presenta ricoperto di paleo; subito ci torna in mente la scivolata
precedente ma ora siamo talmente guardinghi che non scivoleremmo neanche
sull'olio! Il paleo lascia il posto alla roccia, ora si deve procedere
tenendosi con le mani alla parete. L'ascesa al passo è in forte salita,
si deve arrampicare senza particolari difficoltà, tuttavia chi volesse
ripetere deve tenerlo in considerazione.
Siamo diretti verso il Monte Focoraccia (m.1149), il sentiero
è più agevole ma a tratti esposto, tuttavia un cavo di acciaio aiuta a
superare i punti più impegnativi. Raggiungere la selletta è assai dura,
la fatica e il sole ora si fanno sentire; arriviamo alla spicciolata,
ci fermiamo per ricompattarci con un solo pensiero in testa:raggiungere
l'acqua. Il sentiero taglia a mezza costa su prato, volendo però è possibile
salire in cresta sempre su prato. Dopo tante ore di marcia ovviamente
seguiamo il sentiero, raggiungendo in poco tempo un canale pietroso dove
c'è l'agognata fonte che fornisce acqua praticamente tutto l'anno. Camminiamo
da quasi sette ore, una rinfrescata ci voleva proprio prima di proseguire
aggirando la vetta del Monte Carchio (m.1078) verso Pasquilio. Incontriamo
i ruderi di antichi alpeggi e le tracce del faticoso lavoro dei cavatori.
A testimonianza restano grandi blocchi di pietra abilmente squadrati a
scalpello.
Ad un bivio si offrono due alternative, scendere verso
valle per poi risalire o proseguire diritto verso la carrozzabile che
si intravede in lontananza tra gli abeti. Proseguiamo dritto verso il
ravaneto che si attraversa su un' evidente traccia che non presenta difficoltà
se non nel tratto finale, un ripido poggio di pochi metri. Attenzione
però se piove, o se ha piovuto da poco, in questo caso è bene scendere
a valle. La carrozzabile conduce al Pasquilio, la si deve percorrere fino
ad incontrare un ampio sentiero che si stacca sulla sinistra divenendo
ben presto una strada forestale. Improvvisamente ci troviamo catapultati
in un mondo stravolto: pini secolari divelti o spezzati a metà. Qui l'ultima
bufera di vento ha fatto un disastro, un intero bosco distrutto. Imboccato
il sentiero, che ora prosegue sempre dritto fino all'arrivo, lasciamo
libero ognuno di procedere al proprio passo, mancano ancora almeno due
ore alla meta con le gambe che sono diventate davvero pesanti. Aggirato
il Carchio ci dirigiamo verso il Monte Folgorito (m.809) incontrando numerosi
turisti che percorrono queste stradine per godersi una facile passeggiata
tra boschi e prati o per visitare i resti della Linea Gotica trasformati
in museo a cielo aperto. Molti ci guardano senza capire, altri ci chiedono
da dove veniamo restando esterrefatti, non comprendono lo scopo di tanta
fatica. Eh gia! Per molti una camminata di mezz'ora è gia il massimo accettabile!
Lasciamo il bosco sbucando sul versante versiliese del Folgorito. Ora
siamo su sentiero (segnavia 140), qui gli alberi sono scomparsi
bruciati nei numerosi incendi che negli anni hanno devastato il monte
che ora è ricoperto solo da arbusti prunosi. Chi indossa i pantaloni corti
rimpiange di non averli lunghi, però sono stati così comodi finora! Anche
se hanno favorito il "selvaggiume", niente paure, è un'espressione locale
per indicare un problema che può incontrare chi percorre i nostri sentieri
in questo periodo. Il "selvaggiume" è un'irritazione cutanea non pericolosa
ma molto fastidiosa, prodotta da funghi che prolificano sugli escrementi
dei mufloni. Il caldo umido del periodo ne favorisce lo sviluppo; per
quanto possibile si deve evitare di transitare nei luoghi dove si scorgono
evidenti tracce di escrementi. Il problema si risolve comunque in pochi
giorni con un po'(?) di prurito alleviato da impacchi di acqua salata
e acidulata con aceto. In lontananza, tra i pini, scorgiamo la punta bianca
e rossa del ripetitore che indica l'arrivo. Però quant'è ancora lontano!
Scendiamo a Cerreta San Nicola, ora abbandonata ma meta di tante scampagnate.
Dalla fontanella esce solo un rivolo di acqua tiepida ma tanto basta,
siamo stanchi e assetati, desiderosi di arrivare. Manca davvero poco con
la strada in discesa, credete che faciliti? Chiedetelo a gambe che camminano
da 11 ore e capirete! Il paesaggio è spettrale, tronchi anneriti dal recente
incendio e nessun suono che indichi la presenza di vita, il fuoco ha distrutto
tutto. Ci giriamo istintivamente verso il mare e proviamo una stretta
al cuore: davanti a noi alcuni tralicci danneggiati. Proprio qui durante
le operazioni di spegnimento dell'ultimo incendio doloso, il cui autore
è stato individuato, si è verificato un incidente aereo costato la vita
ai due piloti di un Canadaire. Al termine di un lancio hanno impattato
contro il cavo di guardia della linea ad alta tensione che taglia il monte
danneggiando irrimediabilmente il velivolo che è poi precipitato, dopo
un eroico ma inutile tentativo di ammaraggio, su una zona abitata. Volgiamo
solo pensare ai piloti e alle loro famiglie scendendo in silenzio l'ultimo
tratto. Siamo oramai alla "Casina Rosa", l'arrivo. Veramente era previsto
di scendere a Ripa lungo la carrozzabile ma sono solo in sette gli eroi
(folli?) che ci provano, e quattro comunque approfittano di un passaggio
in auto lungo la strada. Siamo davvero esausti, desiderosi solo di una
cosa: un megagelato "del Lenzetti". Proprio mentre ce lo gustiamo ecco
che torna la nostra Giusy, zoppica riuscendo a camminare solo con l'aiuto
del marito, ma è sorridente e tranquilla. Un bel cono gelato anche per
lei con l'augurio di tutti affinché sia in forma gia per la prossima escursione.
P.S. Si è subito lamentata perché tra i gusti del gelato c'era anche la
banana che lei proprio non aveva chiesto. Conclusione?!!! |