U.O.E.I.
UNIONE OPERAIA ESCURSIONISTI ITALIANI
Sezione "Antonio Tessa" - RIPA DI VERSILIA
 
TRAVERSATA FOCE DI MOSCETA  -  RIPA
Alpi Apuane Meridionali
Percorso:Dalla Foce di Mosceta (Rifugio Del Freo) al paese di Ripa Segnaletica:biancorossa CAI segnavia 129, 141, 31, 142, 143, 33, 140
Dislivello: m.circa 650 in salita 1550 in discesa Tempo di percorrenza: ore11 circa
Classificazione: EE Punti sosta:Rifugio Alleluja al Carchio (se aperto, privato non gestito)
Acqua: Rifugio Del Freo, Passo Croce (non sempre), Pasquilio Periodo consigliato:dalla primavera inoltrata all'autunno
A quanto pare il tempo quest'anno ha ripreso a fare dispetti agli uoeini, dopo averci costretto ad annullare quasi tutta l'attività invernale, ci ha costretti a rimandare pure la prima traversata dell'anno. Ma noi abbiamo cambiato data e programma ottenendo la meritata ricompensa. Sabato 30 Aprile è una bella giornata di sole, appena velato da nuvole passeggere e all'indomani il meteo è ancora più clemente: sole! Visto che partiamo in una giornata lavorativa per molti, abbiamo modificato il programma raggiungendo Pruno in pullman nel pomeriggio e il Rifugio Del Freo a Mosceta (m.1180) in serata, accorciando così la traversata. In definitiva la parte che più ci interessa è quella prevista per l'indomani, che resta inalterata. Al rifugio ci attendono gli amici di Livorno che hanno approfittato della bella giornata per un'escursione fuori programma. Siamo in 14 ma sappiamo che alcuni amici ci raggiungeranno il mattino seguente. Alle sette siamo pronti per la partenza, la valle di Mosceta non è ancora raggiunta dal sole ma già la temperatura si annuncia superiore alla media, sarà una giornata calda in tutti i sensi. Il gruppo è cresciuto, si sono aggiunti coloro che hanno pernottato alla Fania e il solito Pierino (attenzione! è proprio il suo nome) che invece è partito a un'ora impossibile.
Imbocchiamo il sentiero (segnavia 129) in un coro di commenti sarcastici che rimproverano bonariamente ma non a torto, agli accompagnatori di far iniziare le escursioni sempre in salita. In effetti il primo tratto è in decisa salita su un sentiero profondamente segnato dal ruscellamento dell'acqua piovana. I pile erano già finiti negli zaini, ora li raggiungono anche le magliette più pesanti, si comincia bene! In un clima da scampagnata raggiungiamo la strada di cava che interrompe il sentiero. Pieghiamo a destra verso Fociomboli proseguendo poi sulla stessa strada che alterna ora tratti sterrati ad altri asfaltati. A Passo Croce (m 1231) abbiamo appuntamento con altri amici, ora siamo al completo: 22 partecipanti. Attenzione, Passo Croce è l'ultimo posto dov'è possibile trovare acqua, da qui in poi non se ne trova più fino a Pasquilio, ossia quasi fino alla fine della traversata. Raccomandiamo a chi volesse ripetere il percorso di rifornirsi di una scorta abbondante al rifugio perché in piena estate questa fonte potrebbe essere secca, attenzione dunque. Imbocchiamo ora il sentiero (segnavia 141) che si stacca sulla destra orografica della strada asfaltata in prossimità di un colle, tagliando a mezza costa per dirigersi verso il Passo dei Fordazzani (m.1060) e il Colle del Cipollato (m.1151) sovrastante l'omonima galleria. Il primo tratto è in discesa, ben visibile ma reso scivoloso dal paleo. Scendiamo con cautela in una lunga fila fino ai primi arbusti dove ci concediamo una pausa. Sono da poco passate le otto e fa già caldo, si, sarà proprio una giornata all'insegna del gran caldo. Anche i più restii ricorrono alla crema solare, è il primo vero sole dell'anno, nessuno vuole rimediare una bella scottatura assai probabile visto il pallore che baldanzosamente esibiamo. Proseguiamo in direzione del Colle del Cipollato che superiamo agevolmente immettendoci infine sulla strada della cava Henraux, in località Betigna (m.1035), nei pressi della sbarra che impedisce il transito alle auto. In verità ostacola anche l'accesso a piedi perché bisogna scavalcarla. I fotografi sono i primi nella speranza che qualcuno si esibisca in scavalcamenti, diciamo, rovinosi; macché niente da immortalare. Superata la sbarra si prosegue sulla strada di cava fino ad un bivio dove si deve piegare a destra, sempre su strada di cava ora sterrata (segnavia 31 + at) a ridosso del Canale del Fredddone (Canale Fondone). Il chiacchiericcio continua ma ora, stranamente (?), ognuno cerca sempre più spesso l'improbabile ombra di piante ancora senza foglie.
La galleria che conduce verso le cave dell'Altissimo offre un gradevole rinfresco, nessuno perde l'occasione per una rinfrescata con l'acqua che gocciola dalle pareti. Il versante nord del Monte Altissimo è profondamente segnato dall'attività estrattiva che lo sta snaturando. Ancora pochi metri e gli alberi lasciano il posto al bianco accecante del marmo, senza occhiali da sole è davvero difficile tenere gli occhi aperti; ora si che cominciamo davvero a faticare. Le prime giornate calde sono le più dure da sopportare e noi stiamo camminando su una strada bianca e polverosa in mezzo a incombenti pareti di marmo che riflettono ogni raggio di sole. Lo scenario è grandioso e affascinante, per un po' dimentichiamo che tutta questa ricchezza per l'uomo è un'immensa ferita nel fianco della montagna. Sudati, col fiatone e con le signore finalmente (!!!!!) silenziose superiamo la cava sempre seguendo la strada, fino ad incontrare il vecchio sentiero dei cavatori (segnavia 142). Qui, a pochi metri dallo scempio prodotto dall'escavazione meccanizzata la natura ritrova il suo splendore, subito possiamo scorgere coloratissime fioriture che sembrano spuntare dalla roccia. Camminando tra i faggi guadagniamo rapidamente quota raggiungendo la cresta in prossimità del Vaso Tondo (m.1287), un ampio canalone che deve il nome alla forma che assomiglia proprio ad un enorme vaso arrotondato. Da qui un sentiero particolarmente esposto e pericoloso conduce alla Tacca Bianca, la cava da cui si dice che Michelangelo estraesse il blocco di marmo dove scolpì la Pietà. E' poco più di una leggenda perché all'epoca non avrebbe mai potuto portare a valle un simile peso, tuttavia la cava, un vistoso buco nel fianco della montagna, costituisce uno degli itinerari più ammirati dell' Altissimo.
Noi proseguiamo seguendo il filo di cresta verso la vetta (segnavia 143) in uno scenario da cartolina: alla destra la valle del Canale delle Gobbie e una vista che spazia fino alle cime ancora innevate dell'Appennino. Alla sinistra la costa tirrenica offre uno spettacolo indimenticabile, lo sguardo spazia da Livorno fino alle Cinque Terre. Camminiamo in silenzio rapiti dal panorama, per chi percorre il sentiero per la prima volta è una scoperta continua. Il tracciato abbandona la cresta per tagliare il crinale salendo fino a pochi metri dalla vetta, riportandosi poi in cresta negli ultimi metri. Sono da poco passate le 11 quando alla spicciolata raggiungiamo la vetta del Monte Altissimo (m.1589), siamo stanchi ma la fatica passa in fretta; ci troviamo praticamente a metà itinerario, possiamo vedere il Monte Corchia, Mosceta è sul retro, e il Monte Folgorito, l'ultima vetta che supereremo prima di scendere verso Ripa. Sembra di poter toccare il Folgorito con un dito ma guardando bene il semicerchio che dovremo percorrere si intuisce che è ancora molto lontano. Ci concediamo un attimo di relax per consumare un po' di frutta e per le foto di routine senza perdere l'occasione per chiamare casa che in tanti cercano di individuare giù a valle. Ci attende ora il tratto più difficile e pericoloso, fino alle pendici del Monte Carchio il percorso presenta difficoltà notevoli, è esposto e su roccia, richiede particolare attenzione, prudenza e soprattutto esperienza. Non è un sentiero (segnavia 143) adatto a tutti chi non è veramente esperto deve evitarlo, un incidente qui può essere irrimediabile. Il nostro gruppo è formato da escursionisti sufficientemente esperti, i più incerti, che comunque hanno anni di esperienza, saranno da ora in poi seguiti da vicino dagli accompagnatori.
Lentamente raggiungiamo una prima sella dove il sentiero si fa meno impegnativo pur restando assai esposto. Poco sopra incontriamo due amici che stanno cercando di salire in vetta, a nostro parere non hanno esperienza sufficiente, cerchiamo di convincerli spiegandogli il rischio inutile a cui si espongono, purtroppo ci ignorano sopravvalutando le loro capacità; questo è un comportamento irresponsabile alla base di gravi incidenti.Davanti a noi scorgiamo il Passo degli Uncini (m.1380) che deve il nome alle creste che assomigliano ad enormi arpioni.Anche questo è un tratto notevolmente impegnativo che ci desta non poche preoccupazioni. E' in forte discesa su un tracciato (segnavia 33) ben evidente ma pieno di sassi smossi che possono cadere e far scivolare. Siamo un gruppo numeroso e questo aumenta il rischio, dovremo rimanere compatti per evitare che qualche sasso rotolando possa far male a qualcuno. A metà percorso purtroppo una banale distrazione, un sasso che si muove e una signora cade scivolando per alcuni metri lungo il pendio sassoso. Diciamo subito che non è successo nulla di troppo grave: una caviglia slogata e alcune abrasioni; ma in montagna è più che sufficiente per restare bloccati. Le prestiamo le cure del caso e la aiutiamo a tentare di proseguire. Non è possibile, il dolore è forte e la caviglia non regge, non resta che caricarcela in spalla e scendere lentamente verso il Passo della Greppia (m.1200) per farla riposare sul prato e valutare il da farsi. Il dolore però continua ad aumentare rendendole impossibile proseguire, ora ci troviamo su un piccolo pianoro a ovest sgombro da ostacoli, la visibilità è ottima: chiediamo l'intervento dell'elisoccorso.
Una serie di telefonate con la base di Cinquale e in poco tempo il soccorso è effettuato. E' andato tutto bene, per fortuna, ma una riflessione sull'accaduto è doveroso farla. Andando in montagna si deve mettere nel conto la possibilità di un incidente, magari con conseguenze limitate come una slogatura, ma che tuttavia essendo in montagna è sempre un evento di una certa gravità. La nostra amica in conseguenza di una slogatura è caduta lungo il pendio riportando solo alcune contusioni, ma poteva anche battere la testa con conseguenze ben più gravi. Non possiamo poi dimenticarci di chi l'ha soccorsa, scendere lungo un pendio portando una persona sulle spalle è oltremodo pericoloso e non è certo privo di pericoli chiamare a volare un elicottero a ridosso di pendii rocciosi. Una distrazione, o peggio la sottovalutazione del rischio, o la sopravalutazione delle proprie capacità, mette in grave pericolo l'incolumità di chi sarà chiamato ad effettuare il soccorso. Da sempre ripetiamo che un'escursione in montagna non è una passeggiata, servono preparazione, allenamento e tanto buon senso. Mai si possono sottovalutare le difficoltà e sopravvalutare le proprie capacità; avere alle spalle decine di escursioni non sempre è sufficiente per essere un escursionista esperto. Un buon escursionista è colui che sa riconoscere i propri limiti. Quando ripartiamo sono oramai le 14, siamo tranquilli perché la dottoressa dell'elisoccorso ha escluso, a suo parere, la presenza di fratture e la nostra amica era assai tranquilla al momento di salire sull'elicottero. Comunque il gusto dell'escursione è sfumato, ora pensiamo solo ad arrivare. Ci incamminiamo verso il Passo della Focoraccia (m.1059), detto anche Passo del Pitone, in versiliese pitone è un grosso sasso. Il sentiero inizia subito in forte discesa e si presenta ricoperto di paleo; subito ci torna in mente la scivolata precedente ma ora siamo talmente guardinghi che non scivoleremmo neanche sull'olio! Il paleo lascia il posto alla roccia, ora si deve procedere tenendosi con le mani alla parete. L'ascesa al passo è in forte salita, si deve arrampicare senza particolari difficoltà, tuttavia chi volesse ripetere deve tenerlo in considerazione.
Siamo diretti verso il Monte Focoraccia (m.1149), il sentiero è più agevole ma a tratti esposto, tuttavia un cavo di acciaio aiuta a superare i punti più impegnativi. Raggiungere la selletta è assai dura, la fatica e il sole ora si fanno sentire; arriviamo alla spicciolata, ci fermiamo per ricompattarci con un solo pensiero in testa:raggiungere l'acqua. Il sentiero taglia a mezza costa su prato, volendo però è possibile salire in cresta sempre su prato. Dopo tante ore di marcia ovviamente seguiamo il sentiero, raggiungendo in poco tempo un canale pietroso dove c'è l'agognata fonte che fornisce acqua praticamente tutto l'anno. Camminiamo da quasi sette ore, una rinfrescata ci voleva proprio prima di proseguire aggirando la vetta del Monte Carchio (m.1078) verso Pasquilio. Incontriamo i ruderi di antichi alpeggi e le tracce del faticoso lavoro dei cavatori. A testimonianza restano grandi blocchi di pietra abilmente squadrati a scalpello.
Ad un bivio si offrono due alternative, scendere verso valle per poi risalire o proseguire diritto verso la carrozzabile che si intravede in lontananza tra gli abeti. Proseguiamo dritto verso il ravaneto che si attraversa su un' evidente traccia che non presenta difficoltà se non nel tratto finale, un ripido poggio di pochi metri. Attenzione però se piove, o se ha piovuto da poco, in questo caso è bene scendere a valle. La carrozzabile conduce al Pasquilio, la si deve percorrere fino ad incontrare un ampio sentiero che si stacca sulla sinistra divenendo ben presto una strada forestale. Improvvisamente ci troviamo catapultati in un mondo stravolto: pini secolari divelti o spezzati a metà. Qui l'ultima bufera di vento ha fatto un disastro, un intero bosco distrutto. Imboccato il sentiero, che ora prosegue sempre dritto fino all'arrivo, lasciamo libero ognuno di procedere al proprio passo, mancano ancora almeno due ore alla meta con le gambe che sono diventate davvero pesanti. Aggirato il Carchio ci dirigiamo verso il Monte Folgorito (m.809) incontrando numerosi turisti che percorrono queste stradine per godersi una facile passeggiata tra boschi e prati o per visitare i resti della Linea Gotica trasformati in museo a cielo aperto. Molti ci guardano senza capire, altri ci chiedono da dove veniamo restando esterrefatti, non comprendono lo scopo di tanta fatica. Eh gia! Per molti una camminata di mezz'ora è gia il massimo accettabile! Lasciamo il bosco sbucando sul versante versiliese del Folgorito. Ora siamo su sentiero (segnavia 140), qui gli alberi sono scomparsi bruciati nei numerosi incendi che negli anni hanno devastato il monte che ora è ricoperto solo da arbusti prunosi. Chi indossa i pantaloni corti rimpiange di non averli lunghi, però sono stati così comodi finora! Anche se hanno favorito il "selvaggiume", niente paure, è un'espressione locale per indicare un problema che può incontrare chi percorre i nostri sentieri in questo periodo. Il "selvaggiume" è un'irritazione cutanea non pericolosa ma molto fastidiosa, prodotta da funghi che prolificano sugli escrementi dei mufloni. Il caldo umido del periodo ne favorisce lo sviluppo; per quanto possibile si deve evitare di transitare nei luoghi dove si scorgono evidenti tracce di escrementi. Il problema si risolve comunque in pochi giorni con un po'(?) di prurito alleviato da impacchi di acqua salata e acidulata con aceto. In lontananza, tra i pini, scorgiamo la punta bianca e rossa del ripetitore che indica l'arrivo. Però quant'è ancora lontano! Scendiamo a Cerreta San Nicola, ora abbandonata ma meta di tante scampagnate. Dalla fontanella esce solo un rivolo di acqua tiepida ma tanto basta, siamo stanchi e assetati, desiderosi di arrivare. Manca davvero poco con la strada in discesa, credete che faciliti? Chiedetelo a gambe che camminano da 11 ore e capirete! Il paesaggio è spettrale, tronchi anneriti dal recente incendio e nessun suono che indichi la presenza di vita, il fuoco ha distrutto tutto. Ci giriamo istintivamente verso il mare e proviamo una stretta al cuore: davanti a noi alcuni tralicci danneggiati. Proprio qui durante le operazioni di spegnimento dell'ultimo incendio doloso, il cui autore è stato individuato, si è verificato un incidente aereo costato la vita ai due piloti di un Canadaire. Al termine di un lancio hanno impattato contro il cavo di guardia della linea ad alta tensione che taglia il monte danneggiando irrimediabilmente il velivolo che è poi precipitato, dopo un eroico ma inutile tentativo di ammaraggio, su una zona abitata. Volgiamo solo pensare ai piloti e alle loro famiglie scendendo in silenzio l'ultimo tratto. Siamo oramai alla "Casina Rosa", l'arrivo. Veramente era previsto di scendere a Ripa lungo la carrozzabile ma sono solo in sette gli eroi (folli?) che ci provano, e quattro comunque approfittano di un passaggio in auto lungo la strada. Siamo davvero esausti, desiderosi solo di una cosa: un megagelato "del Lenzetti". Proprio mentre ce lo gustiamo ecco che torna la nostra Giusy, zoppica riuscendo a camminare solo con l'aiuto del marito, ma è sorridente e tranquilla. Un bel cono gelato anche per lei con l'augurio di tutti affinché sia in forma gia per la prossima escursione. P.S. Si è subito lamentata perché tra i gusti del gelato c'era anche la banana che lei proprio non aveva chiesto. Conclusione?!!!

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